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PENSIERI - Una barriera chiamata muro

Nel 1961, in una grande città europea martoriata dalla guerra appena conclusa e da un clima di guerra latente sempre più oscuro, si inaugurava quello che veniva allora chiamato Barriera di Protezione Antifascista, Antifaschistischer Schutzwall, noto come Muro di Berlino. Circa trent’anni dopo esso veniva smantellato con grandi festeggiamenti che ancora oggi ricordiamo: cadeva, infatti, lo scorso anno il ventennale dalla sua “caduta”. Quel muro che ha tanto indignato noi occidentali, cittadini di un’Europa libera e democratica, e che era simbolo di odio ed oppressione, lo portiamo ancora nel cuore tanto da posizionarne una parte davanti al parlamento di tutte le nazioni europee a Bruxelles.
Nel frattempo, a cavallo tra gli anni 2002 e 2003, lo Stato di Israele inizia la costruzione di un’altra barriera, la Barriera di Sicurezza o Security Fence, ma conosciuto anche come Muro dell’Apartheid o semplicemente Muro.
Le differenze tra i due sbarramenti sono minime; entrambi avevano ed hanno lo scopo di limitare la circolazione di persone e di beni, o meglio di alcune persone e di alcuni beni. E, come ovvio che sia, anche il muro israeliano rappresenta odio ed oppressione: più volte la Comunità Internazionale si è espressa contro la costruzione di quest’ultima barriera, forte è la contrarietà da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, ma tutti questi appelli sono come grida nel deserto.
Un deserto fatto di rapporti economici, militari e strategici che la piccola Europa insieme alla grande America stringono quotidianamente con la Nazione “amica”.

Tutto questo fa si che, giorno dopo giorno, questa barriera di cemento armato prosegua, come un serpente impazzito, il suo percorso sinuoso facendosi strada tra colline e piantagioni di ulivi e includendo nell’una o nell’altra parte case, terreni e villaggi. E con la ferocia dei buldozzer che lo precedono, non si ferma davanti a case o a villaggi “pericolosi”, decide piuttosto di distruggere o semplicemente di circondare.
Non è raro, infatti, imbattersi in villaggi come Al Walaja o Qalquiliya che hanno la sfortuna di trovarsi circondati da diversi insediamenti, ovvero colonie israeliane, che prolificano in quello che, secondo gli accordi internazionali, dovrebbe essere Stato palestinese; situazione curiosa dato che non si potrebbero costruire tali insediamenti secondo la Convenzione di Ginevra, un’altra delle voci del deserto.
Una volta isolati questi paesi, il “rettile maligno” dispone gli orari di ingresso e di uscita oltre i quali è proibito muoversi, tanto che se qualcuno nella notte dovesse stare male dovrà aspettare il mattino per recarsi al più vicino ospedale al di là del muro.
Questo serpente ogni tanto decide di lasciare dei varchi nel suo ventre e a questi valichi si posizionano dei militari che controllano chi può o non può passare e a che ora.
Centinaia di palestinesi si riversano ogni mattina davanti ai chek point, controllati da soldati ventenni con mitragliatore in mano, per recarsi al lavoro e per essere respinti a casa loro. Nel frattempo, dall’altra parte, camion carichi di generi alimentari rimangono inspiegabilmente fermi fino a quando la frutta e la verdura che trasportano non diventa marcia a sufficienza.
Tutto questo mentre il serpente continua a macinare chilometri e chilometri. Ogni tanto si imbatte in qualche riserva idrica e decide che quell’acqua appartiene ad un solo padrone, disponendone gli usi ed i consumi, perché se da una parte l’acqua è necessaria per sopravvivere, dall’altra serve per irrigare verdi giardini o per riempiere profonde piscine.

A questo punto una domanda sorge spontanea: fino a quando questo serpente proseguirà nel suo cammino?
E così, mentre si festeggia l’unione dei popoli sotto una bandiera azzurra con 12 stelle, poco lontano si celebra la sua antitesi.
Nel deserto, ora, grida una nuova generazione: sono tanti bambini palestinesi, ma nemmeno loro si riescono a sentire.